LEGAMBIENTE: «INCOMPATIBILI LE CENTRALI A OLIO DI PALMA»
Legambiente Toscana ha preso carta e penna e ha scritto al Presidente della Provinciale di Livorno e al Dipartimento dell’ambiente e territorio, ponendo una importante osservazione alla richiesta di autorizzazione unica (ai sensi dell’art. 12 del D.L.vo n. 387/2003 e dell’art. 13 L.R.T. n. 39/2005) per la costruzione e l’esercizio a Piombino, in località Montegemoli, della centrale termoelettrica da 22 Mwe da alimentare a olio di Palma.
Gli argomenti presentati da Legambiente Toscana sull’incompatibilità degli impianti energetici a biomassa come quello proposto dalla SECA S.r.l. sono:
– le biomasse sono prevalentemente di origine di paesi orientali o sudamericani;
– per il disboscamento di foreste primiziali e per l’energia fossile per il trasporto, il bilancio della CO2 è negativo;
– non è un impianto cogenerativo;
– non è agganciato ad un progetto industriale o agricolo di sfruttamento dell’energia prodotta o del calore residuo;
– Non esiste e non è stato avviato un iter per la redazione di un piano energetico locale PAEC che sarebbe obbligatorio e previsto dalla legge 10 del 1991;
– non vengono rispettate le indicazioni date dallo studio commissionato dal Circondario della Val di Cornia nel 2004 commissionato all’ing. Francesco Martelli dell’università di Firenze intitolato “analisi energetica relativa al comprensorio di Val di Cornia”;
– Non sono rispettati gli indirizzi scritti scritto nel piano di azione locale dell’Agenda 21.
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«Le agrienergie – commenta Legambiente Toscana – potenzialmente sono una grande opportunità per la nostra autonomia energetica, per la nostra agricoltura e soprattutto per mitigare la principale minaccia ambientale di questi anni, ossia i cambiamenti climatici dovuti all’effetto serra.
Ma i benefici di questa fonte energetica sono legati a determinate condizioni, senza le quali il suo impiego può rovesciarsi in un danno ambientale e addirittura in un aumento dell’effetto serra e in un danno all’agricoltura e agli ecosistemi.
Le dimensioni e le caratteristiche dei progetti possono non soddisfare a nostro parere queste condizioni soprattutto se prevedono anche solo in parte che la biomassa provenga da lontano. L’approvvigionamento di materia prima da grande distanza, oltre ad aggravare il bilancio energetico coi trasporti e a non portare alcun beneficio alla nostra agricoltura, rischia di fallire l’obiettivo primario di sostituzione dei combustibili fossili: mitigare i fenomeni responsabili dei cambiamenti climatici, ossia le emissioni di gas serra.
In linea di principio infatti l’uso energetico della biomassa vegetale, in quanto accumulatrice di carbonio durante il suo ciclo di vita, può migliorare notevolmente il bilancio di emissioni di anidride carbonica, gas responsabile per 2/3 dell’effetto serra. Ed è su questo assunto che paesi come l’Olanda hanno deciso un ampio ricorso ai biocarburanti vegetali, sviluppando già da anni una serie di impianti di dimensione analoga a quelle ipotizzate in Toscana. Come materia prima hanno puntato all’importazione massiccia di olio di palma, che costa assai meno dei nostri oli vegetali. Ma la nuova fame mondiale di agroenergie ha scatenato la rincorsa nei paesi tropicali – vedi Indonesia (tuttora principale fornitore olandese), Malaysia, Brasile o Paraguay – a sviluppare coltivazioni intensive di palma, disboscando ampie aree forestali e bruciando i residui su terreni torbosi, ricchi di carbonio. Col risultato di liberare in aria notevoli masse di CO2 che vanificano sostanzialmente il beneficio del ricorso al combustibile vegetale.
Per questo un modello agroenergetico basato essenzialmente su materie prime di importazione risulta insostenibile.
Ma anche la scelta di un approvvigionamento locale pone limiti di sostenibilità. Questi limiti sono intimamente connessi al territorio in questione, alla sua disponibilità di risorse agroforestali e alla sua caratterizzazione agronomica e paesaggistica. Il girasole dà buone rese, fa parte dei suoi ordinamenti tradizionali, purché a rotazione e con basso input chimico, è sostenibile in un areale molto ampio. Oltretutto il fabbisogno di olio vegetale potrebbe essere in parte garantito da altre colture invernali e favorendo le rotazioni. Forti perplessità suscita invece l’ipotesi di piantare ettari di pioppo a rapida crescita e ettari di canna comune (harundo donax) per soddisfare il fabbisogno di biomassa solida. Che impatto possono avere sul tradizionale paesaggio rurale, che rappresenta anche una risorsa turistica di prestigio mondiale, queste migliaia di ettari di pioppete tagliate a raso ogni due anni per alimentare una caldaia?
Noi riteniamo – continua il comunicato di Legambiente – che possano essere previsti impianti di dimensioni molto limitate – in grado di essere alimentato con un prelievo sostenibile di biomassa in un raggio massimo di 40-50 km – e con una logica di processo innovativa. I grandi industriali, abitualmente obiettano che sotto una certa soglia la produzione di elettricità da biomassa non rende. In effetti, soglia o non soglia, la produzione di elettricità da biomassa in Italia non è e non può essere competitiva sul mercato energetico. Si regge a stento con i Certificati Verdi e con materiale di importazione perché il costo della nostra materia prima agroforestale è troppo elevato rispetto ai prezzi di un olio di palma dei paesi tropicali o di un pellet derivato dai residui delle segherie canadesi. Ma è proprio questo il punto debole e senza prospettiva dei progetti di grandi impianti. Non ha senso per un paese come il nostro, con risorse agricole limitate e ad alto costo, coltivare biomassa semplicemente per buttarla in una caldaia. Lo può fare correttamente una cooperativa di contadini o una comunità di montagna in piccoli impianti per l’autosufficienza energetica. Ma non ha senso che lo proponga un gruppo industriale. Per essere competitivi possiamo solo puntare alla massima valorizzazione di tutte le risorse che una coltura ci offre. E’ quello che del resto si fa col cracking del petrolio: si ricava benzina, ma si ricavano anche molecole di base per la chimica secondaria e per la chimica fine. Lo stesso si può cominciare a fare con le colture agricole. Usare olio di girasole o di brassica prodotto in Italia per bruciarlo o farne biodiesel può essere solo il punto di partenza di un progetto industriale. Ma se oltre all’olio combustibile, si progetta di valorizzare i principi attivi di alcune specie o i composti proteici di altre o si progetta di usare la glicerina come base per altre molecole intermedie di interesse chimico-farmaceutico, allora si cominciano a costruire valide alternative alla petrolchimica, nuove conoscenze e valore aggiunto per il paese. E soprattutto si può ragionare su reti di impianti a scala territoriale».
Quindi il progetto presentato dalla società S.E.C.A. S.r.l. – conclude Legambiente – non risponde a nessuna delle caratteristiche di compatibilità rammentate per impianti che utililizzano biomasse, in particolare:
– le biomasse sono prevalentemente di origine di paesi orientali o sudamericani
– per il disboscamento di foreste primiziali e per l’energia fossile per il trasporto, il bilancio della CO2 è negativo
– non è un impianto cogenerativo
– non è agganciato ad un progetto industriale o agricolo di sfruttamento dell’energia prodotta o del calore residuo
– non è agganciato ad un progetto di “Chimica Verde”.