PIOMBINO: QUINDICI ANNI SENZA RUGGERO, IN DIFESA DELLE MORTI SUL LAVORO
Valeria Parrini Toffolutti, giornalista e presidente dell’associazione nazionale “Ruggero Toffolutti contro le morti sul lavoro” ci ha inviato una lettera in memoria del figlio Ruggero morto quindici anni fa, il 17 marzo 1998, in un incidente sul lavoro dentro lo stabilimento de’La Magona di Piombino. La riportiamo integralmente perché da questa traspare l’amore di una mamma che ha perso il proprio figlio e che da quel giorno si è sempre impegnata affinché si fermino le morti per incidenti sul lavoro, quelle “morti bianche” che ti strappano l’amore di un parente o di un amico, che ha avuto l’unica colpa di voler lavorare per mandare avanti la propria famiglia e il nostro paese.
La lettera integrale la trovate anche a questo indirizzo: http://www.ruggero-toffolutti.org/testimonianze/Quindici_anni_dopo.htm
Il sito ufficiale dell’associazione Toffolutti e: http://www.ruggero-toffolutti.org
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«“Campo di calcio a cinque Ruggero Toffolutti – Van Toff”: dal prossimo giugno il Magonello, a Piombino, si chiamerà così. Mi sembra quasi di sentirlo: “Non importava, lo sai. Avrei continuato a giocarci lo stesso”. Ogni estate lo rivediamo dribblare gli avversari e fare goal durante le partite del Van Toff, il memorial che prende il nome dal suo pseudonimo calcistico. Perché Ruggero tifava Milan e amava Van Basten. Quindici anni. Sono trascorsi 15 anni da quel mattino di quasi primavera. Io che accompagno l’altro figlio a scuola. Fa la terza elementare ed è legatissimo al suo tato, grande e giocherellone. Poi vado in redazione per cominciare la giornata di lavoro. Che mi inquieta subito, con quel fischio di sirena d’ambulanza che mi ferma il cuore per un attimo.
Ancora non sapevo.
La prima telefonata è di una collega. Suo marito lavora in Magona e segnala un infortunio mortale in fabbrica. Le chiedo il nome della vittima. Non lo sa. Le dico: “Anche Ruggero è in Magona, stamani”. “Ce ne sono tanti, che vai a pensare. Perché dovrebbe essere proprio lui”?, mi risponde.
Già, perché dovrebbe essere proprio lui.Mi ripeto a voce alta. Perché? Comincio a fare quello che noi giornalisti chiamiamo giro telefonico di nera.
Riesco a rintracciare sul cellulare il sindacalista che è sul posto. Gli chiedo il nome della vittima. Silenzio. E io che incalzo. Fino a quando dall’altra parte del telefono arriva la conferma: “Che ti devo dire? E’ lui. E’ il Toffolutti”. I colleghi non sono ancora arrivati. Qualcuno là intorno mi sente urlare. Viene a vedere cosa è successo. Mi accompagna a casa. Ed è lì che parlo con mio marito. Non sappiamo ancora che non potremo vederlo neanche un’ultima volta, Ruggero… Che non potremo neanche vestirlo, tanto ha lavorato bene quel macchinario senza protezioni che lo ha stritolato.
Non sappiamo ancora che, pochi giorni prima di morire, si è rivolto a un lavoratore sindacalizzato della Magona per chiedere aiuto e dirgli in quali condizioni erano costretti a lavorare lui e i suoi compagni dell’impresa. Non sappiamo ancora che quel lavoratore non ha detto tutto al magistrato. Adesso, quando mi vede, abbassa la testa. Non sappiamo ancora che Ruggero ha avuto il tempo di capire. Forse sarà stato un attimo. Ma un attimo interminabile. E il terrore che leggiamo nei suoi occhi non smetterà mai di riflettersi nei nostri..
Pochi mesi dopo nasce l’associazione nazionale Ruggero Toffolutti per la sicurezza dei luoghi di lavoro. Sensibilizzare. Denunciare. Incontare i ragazzi. Concorsi fotografici e letterari. Manifestazioni. Tornei. Una mostra che viaggia in mezza Italia. Si chiama “Persone, non numeri”. Perché di persone, parliamo.
Andiamo avanti. Senza sosta. Come il dolore. Quello che non passa mai. Che toglie molte sfumature dai discorsi. Che respiri quando conosci famiglie come la tua. Quando registri nemici insospettabili o incassi conferme che fanno male. Perché chi muore sul lavoro o per lavoro, non è un suicida. E nemmeno un imbecille. Ci sono responsabilità precise. Che ruotano troppo spesso intorno a ragioni di mercato, d’impresa.
Se sulla zincatura Ruggero avesse lavorato con un altro, non sarebbe morto. Perché ci sarebbe stato il tempo di fermare l’ingranaggio che lo ha stritolato. Se la gru avesse avuto manutenzioni, Paolo non sarebbe schiantato a terra con la cabina, e non sarebbe stato ucciso neanche il suo compagno che si trovava sotto.
Se Luca, operaio interinale, fosse stato mandato a stivare camion su un traghetto solo dopo che qualcuno gli avesse insegnato le procedure, non avrebbe perso la vita nella prima ora del suo primo giorno di lavoro.
Se, se, se. Conosco i mille “Se” che arrovellano la mente di chi resta. La cultura della sicurezza è importante . Ma non basta, quando le ragioni della vita valgono meno della produzione. Quando chi deve controllare non lo fa o non è messo nelle condizioni di farlo. Quando politica e sindacati si fermano allo sdegno post mortem. Quando il senso di impunità diventa il nemico principale della prevenzione. Quando è la precarietà la regola principale.
Ogni 17 marzo portiamo un mazzo di fiori nella fabbrica dove Ruggero è stato ucciso. Perché pensiamo che se un lavoratore passa di lì e li vede, si ricordi cosa è accaduto. Sappiamo bene che nostro figlio non è lì. E’ con noi, nell’impegno quotidiano contro l’indifferenza che esprimeremo fin quando avremo voce. Per lui, con lui, per gli altri. Nelle sere d’estate, invece, è al Van Toff. A dribblare gli avversari e a fare goal».
Valeria Parrini Toffolutti
Presidente Associazione nazionale Ruggero Toffolutti contro le morti sul lavoro