VITA NEL CARCERE: UN REPORTAGE DA VOLTERRA
Piombino (LI) – Abbiamo intervistato i fotografi piombinesi Luigi Danzi, Francesco Livi e Guido Morelli, che sono entrati nella Casa di Reclusione di Volterra per effettuare un reportage fotografico durante le prove dello spettacolo “La ferita”, organizzato dalla “Compagnia della Fortezza” diretta da Armando Punzo. Il laboratorio teatrale nel carcere di Volterra è nato nel 1988 ed è stato il primo a livello nazionale.
L’ideatore di questo progetto fotografico è Luigi Danzi, che ha coinvolto anche Francesco Livi. I due hanno iniziato insieme tale percorso all’interno del carcere di Volterra e nel teatro durante gli spettacoli ufficiali nel 2013. Quest’anno l’iniziativa ha coinvolto la nostra testata giornalistica, la quale ha patrocinato l’iniziativa, ed il fotografo Guido Morelli, che per la prima volta ha avuto accesso a questa esperienza presso il carcere.
Qual è lo scopo del vostro progetto?
L. Il nostro obiettivo è quello di riuscire a realizzare iniziative con e per la “Compagnia della Fortezza” a Piombino durante la prossima stagione estiva. Inoltre, attraverso questo nostro piccolo contributo, possiamo aiutare a sensibilizzare ulteriormente l’opinione pubblica e le istituzioni sulla situazione carceraria in Italia e in particolare su quella dentro alla Casa di Reclusione di Volterra.
Cosa vi ha spinto ad entrare nel carcere e cosa ha significato?
F. Mi ha spinto l’entusiasmo con il quale lo scorso anno Luigi Danzi mi illustrò il suo progetto. Entrare in carcere vuol dire entrare in un altro mondo, le mura sono enormi e sottolineano lo spartiacque tra il fuori e il dentro. L’esperienza è edificante: l’ho iniziata col timore di dover affrontare comportamenti ostili e invece non abbiamo avuto difficoltà a lavorare e a catturare l’attimo durante le prove e durante lo spettacolo.
G. Davanti a noi abbiamo trovato persone comuni, non sembrava di parlare con criminali colpevoli di chissà quale reato. Molti di loro, comunque, hanno quasi terminato il percorso di recupero ed erano contenti di partecipare a questo tipo di lavoro. L’impatto con il carcere è stato tranquillo, forse perché non lo abbiamo vissuto nella sua integrità, ma ci siamo fermati al corridoio. Sono grato per l’invito che Luigi e Francesco mi hanno rivolto permettendomi di vivere questa bellissima esperienza.
Nelle vostre foto vediamo un corridoio del carcere con degli specchi: che cosa rappresenta?
F. Gli specchi erano nel corridoio, sul soffitto e sulle pareti, con l’obiettivo di far sembrare più grande il carcere. Tutti i carcerati, vestiti da marinai, li guardavano, e mi ricordo una scena suggestiva durante la quale i loro riflessi allo specchio si arricchivano di gesti marinareschi.
G. Le donne che si vedono nelle foto sono volontarie esterne al carcere.
Si è creato un legame fra voi e i detenuti?
F. Avevo conosciuto alcuni carcerati l’anno scorso, è stato piacevole che loro si ricordassero di me e io di loro [Francesco ha vissuto l’esperienza nel carcere per la seconda volta, avendola già affrontata nel 2013 insieme al fotografo piombinese, Luigi Danzi ndr]. Abbiamo chiacchierato del più e del meno.
G. Ho stretto un’amicizia, quasi visiva, con uno di loro che apprezzava particolarmente le mie foto e si esponeva volentieri al mio obiettivo.
Il regista Punzo ha dichiarato che «la ferita, dal dolore, produce bellezza». Quale faccia della doppia realtà bellezza/dolore avete visto maggiormente in carcere?
G. Io ho visto e fotografato più che altro la libertà e il piacere di impegnarsi per lo spettacolo. I detenuti non mostravano dolore, quello è intimo, ma erano felici, obbedienti e disponibili. Sono persone recuperate nella società e per loro recitare è un successo e un traguardo.
F. Durante gli scatti pensavo più alla bellezza, trasportato dal modo di comportarsi dei detenuti e al progetto che andava al di là della realtà carceraria. Ovunque fotografassi, nel corridoio vedevo un insieme di bellezza. Il dolore l’ho trovato di più nella città di Volterra, vedendo le mura franate e pericolanti.
Come vi siete avvicinati alla fotografia?
G. Sono un ex operaio specializzato Lucchini, ma ho sempre coltivato la passione per la foto artistica e ho avuto anche un negozio di fotografia.
F. Mi sono diplomato all’istituto “Tecnico Grafico Pubblicitario” a Cecina e a scuola ho iniziato a imparare la tecnica e la storia della fotografia, come funzionano la telecamera analogica e digitale, la camera oscura. Appassionatomi alla disciplina, ho cominciato a studiarla per conto mio. Ho anche vinto qualche concorso e i due più importanti risalgono al 2014: uno è internazionale e si chiama “Colors Venice Carnival” e l’altro nazionale e si chiama “Mille Miglia”.
Tra Francesco, 22 anni, Luigi 51 e Guido, 78 anni, corre più di mezzo secolo: cosa significano 56 anni di distanza nel mondo della fotografia?
G. Tra me e Francesco c’è di mezzo l’analogico, che è la partenza della fotografia e resterà sempre una guida. È bene che un giovane conosca l’analogico perché senza di quello gli mancherebbe sempre qualcosa, ma allo stesso tempo chi è più anziano deve imparare il digitale. Io e Francesco, professionalmente parlando, siamo l’accoppiata migliore di tutte: ognuno ha bisogno dell’altro e cresciamo insieme.
L. Siamo un trio di fotografi bene amalgamato che spesso collabora insieme e ci troviamo in buona sintonia nelle varie situazioni fotografiche che si presentano.
Chiara Bellucci