JACOPO V D’APPIANO, LE INCURSIONI OTTOMANE E COSIMO DE’ MEDICI
Piombino (LI) – Continuiamo, dopo una breve pausa con la pubblicazione degli articoli divulgativi di storia piombinese a cura di Nedo Tavera. In questo numero si narra di Jacopo V D’Appiano, le incusioni ottomane e Cosimo de’ Medici. Le puntate precedenti possono essere consultate a questo link.
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JACOPO V D’APPIANO, LE INCURSIONI OTTOMANE E COSIMO DE’ MEDICI
Da Jacopo V d’Aragona Appiano, risalendo fino al bisavolo Emanuele, era stata perseguita la linea matrimoniale con la Casa d’Asburgo del Regno di Napoli, da cui i Signori di Piombino ne avevano ormai assunto il nome. Da questo parentado essi ne avevano tratto, nell’arco di svariati decenni, prestigio e garanzia del loro Stato. La travagliata politica italiana del XVI secolo, caratterizzata dalle guerre di religione europee, procurerà, comunque, sgradite sorprese alla famiglia regnante, ma soprattutto a Piombino ed al suo territorio.
Nel 1510, nello stesso anno della morte del padre, Jacopo V prese in sposa Marianna d’Aragona di Villahermosa, figlia di Alfonso, fratello naturale di Re Ferdinando II d’Aragona, il Cattolico; ma il giovane Principe di Piombino non ebbe molta fortuna matrimoniale, perché rimase più volte vedovo molto presto. Non ebbe neanche grandi fortune politiche, poiché gli eventi internazionali prefiguravano seri scenari per i suoi domini.
Frattanto, nel Regno di Napoli si aprivano problemi di successione, e, nel 1516, la discendenza femminile di Ferdinando II si unì dinasticamente alla linea spagnola della Casa d’Asburgo, per cui il vedovo Jacopo V, venendogli meno l’appoggio parentale acquisito con la Casa d’Aragona, credette bene di rivolgersi verso Firenze con la quale i Signori piombinesi erano alleati da sempre per la protezione dello Stato. Nel 1514, Jacopo prese in moglie Emilia Ridolfi, figlia di Piero di Niccolò e di Contessina de’ Medici, dell’influente patriziato fiorentino, che purtroppo morì in breve tempo, per cui l’anno successivo elesse come nuova moglie la sorella minore della defunta. Colei fu Clarice Ridolfi, con la quale, essendo curiosamente ancora bambina, dovette effettivamente celebrare il matrimonio più tardi, verso il 1520.
Considerando che Contessina de’ Medici era figlia di Lorenzo il Magnifico, quindi nipote di Leone X, alias Giovanni de’ Medici, con queste nozze si era rinsaldata la catena matrimoniale fra i D’Appiano e la potente famiglia fiorentina, iniziata, nel 1482, fra Semiramide, sorella di Jacopo IV, e Lorenzo il Giovane, detto il Popolano.
Rimasto nuovamente vedovo e senza discendenza, Jacopo V, l’anno 1525, si unì nuovamente in matrimonio con Elena Salviati, di famiglia fra le più note della storia fiorentina. Jacopo Salviati aveva sposato Lucrezia de’ Medici, figlia di Lorenzo il Magnifico, dalla cui unione nacquero, fra gli altri figli: Maria (+ 1543), convolata a nozze con Giovanni delle Bande Nere, madre di Cosimo I; Elena (+ 1552), maritata con Jacopo V d’Aragona Appiano, il quale, conseguentemente, fu zio di Cosimo I. Parentado, dunque, importante, sebbene Cosimo non fu sempre leale con Jacopo V. Questi ed Elena Salviati finalmente concepirono, circa il 1529, la discendenza attesa: Jacopo VI, cugino di Cosimo de’ Medici.
Jacopo V non fu per niente gratificato dalla politica internazionale del suo tempo ed ebbe invece da preoccuparsi molto del concentramento delle armate franco-turche nel Mediterraneo e degli intrighi di chi tentava di sottrargli il suo Stato. Principalmente, era proprio Cosimo I a brigare presso l’Imperatore lamentando la scarsa efficienza militare dello Stato di Piombino, carente di uomini e di fortificazioni, che, a suo dire, avrebbe minato alla sicurezza della Toscana e delle isole prospicienti. Tali timori si fondavano sul previsto scontro con le armate della “empia alleanza”. Così era definita dai contemporanei la sacrilega lega tra la Francia e l’Impero ottomano sorta, nel 1536, per contrastare e fiaccare l’egemonia asburgica in Europa. Il fronte debole della regione tirrenica, per così dire, sarebbe stato proprio Piombino. Le conseguenze dell’unione franco-ottomana saranno scelleratamente perduranti fino alla fine del Settecento.
Le ragioni del Duca Cosimo (Granduca lo diverrà nel 1569) non erano affatto infondate, ma vi era da tener conto dell’eccessiva sua bramosia, nutrita da sempre, di impossessarsi di Piombino, ritenuta troppo importante per prerogative strategiche, portuali e minerarie; A Cosimo questo sembrava il momento opportuno per raggiungere lo scopo, poiché già erano in atto sulle coste del Mediterraneo gli assalti e la pirateria della flotta ottomana e della marineria barbaresca. Le preoccupazioni del Medici erano più che giustificate, perché alle sue stesse mire espansionistiche su Piombino corrispondevano identiche ambizioni della Francia. Contrastavano, inoltre, l’obiettivo del Duca i Genovesi, che diffidavano del rafforzamento della potenza fiorentina, ed anche i Senesi, che ne temevano per la loro indipendenza.
Le terrificanti devastazioni dei corsari barbareschi, riversate sulle città costiere, non solo tirreniche, risalivano molto indietro nel tempo, già alla fine del Medioevo; quei predoni infestavano i nostri mari ed erano soliti annidarsi indisturbati nei porti indifesi del Tirreno ed attuare così le loro scorrerie, compiendo stragi, rapine, rastrellando schiavi e spopolando interi centri abitati. Lo Stato di Piombino e, in particolare, le sue isole ne subirono più volte le selvagge incursioni, infliggenti alle popolazioni inermi saccheggi, deportazioni e massacri. Oltre a ciò subiva grave pericolo la navigazione commerciale, nonché ripercussione e impedimenti il normale svolgimento dei traffici marittimi locali, il complesso dei quali, compresa la conflittualità fra Piombino e il Bey di Tunisi, ad esempio, potrebbero riempire interi libri di storia. Interessante, al riguardo, è La Signoria di Piombino e gli Stati Barbareschi, di Eugenio Massart, 1970.
Già verso il 1534, si stavano reiterando le violenze e le efferatezze seminate dal flagello turco, che impensierivano molto i nostri popoli: era la flotta ottomana, guidata dall’ammiraglio Barbarossa, che imperversava nel Tirreno e sulle coste gettando nel terrore gli abitanti. Impressionanti sono la messa a ferro e fuoco dei centri dell’Elba, come Rio e Grassera, e gli stermini e la riduzione in schiavitù degl’isolani, riportati da Giuseppe Ninci nella sua Storia dell’Isola d’Elba, 1898.
In tale periodo fortemente drammatico per Piombino e l’Elba si inserisce un episodio relativo al giovane figlio di Sinaan Pascià, generale della marina ottomana, scoperto a bordo di una galera tunisina catturata, nel 1539, dai Piombinesi. L’ostaggio fu trattenuto benevolmente presso la corte di Jacopo V, che se ne prese cura e lo fece cristianizzare, battezzandolo. Il ragazzo venne poi insistentemente richiesto indietro dal Barbarossa, che si era avvicinato con le sue navi a Piombino senza colpo ferire, ma non ricevette l’assenso del Signore. Il pirata ritornò l’anno dopo, nel 1544, insistendo nuovamente senza che il Signore recedesse dal suo diniego. A tal punto, l’ottomano, per rappresaglia, aggredì selvaggiamente l’Elba, in particolare Capoliveri, rastrellando schiavi fra la popolazione indifesa. Solo allora Jacopo V si ravvide, dietro assicurazione che fossero lasciati liberi gli Elbani; quindi, restituì il ragazzo alla sua gente senza subire ulteriori ritorsioni dal Barbarossa, che ritornò con le sue navi verso Oriente. Non c’è dubbio che l’insenatura di Calamoresca, nel litorale piombinese, ha originato tale denominazione dalla frequentazione delle imbarcazioni turco-barbaresche.
Orrendi fatti di sangue, di riduzione in schiavitù, di devastazione, col supporto della Francia, accaddero all’Elba, a Pianosa e in Corsica, nel 1553, quando le armate ottomane, con a capo il feroce corsaro Dragut, infierirono su quelle popolazioni. Furono risparmiate Portoferraio, la città nuova costruita da Cosimo I, e Piombino, già sufficientemente fortificata e ripiena di soldatesche fiorentine. Agostino Cesaretti tratta dettagliatamente di questi funesti eventi e riferisce che Dragut fece ritorno nei nostri mari nel 1555, accerchiando da lontano Piombino con la sua poderosa armata divisa su due fronti: una parte di pirati sbarcò a Baratti, assalendo Populonia, da dove fu rigettata in mare dalla cavalleria di Gian Giacomo de’ Medici, alias Marchese di Marignano, l’altra parte di turchi, oltre tremila sbarcati a Portovecchio, lontano dalle mura urbane di Piombino, fu quasi annientata e messa in fuga da Chiappino Vitelli con le forze fiorentine di stanza nella città.
Il Cinquecento fu il secolo cruciale nello scontro fra l’Impero ottomano, di cui gli Stati barbareschi erano vassalli, e gli Stati cristiani della Lega Santa, voluta da Papa Pio V. La resa dei conti si conseguì nella Battaglia di Lepanto, nel 1571, la quale sancì la definitiva sconfitta del detto Impero. Ciononostante, scorrerie di pirati barbareschi si ripeterono sulle nostre coste fino al pieno Settecento. Lo confermerà il Vescovo di Massa e Populonia, Eusebio Ciani, nel 1754, confessando di non aver potuto compiere di persona la visita pastorale negli ultimi anni nell’isola d’Elba per il terrore di dover attraversare un tratto di mare infestato dai Turchi e non più difeso «da che mancano le galere di Toscana» (Gaetano Greco, La Chiesa di Massa e Populonia, 1996).
Frattanto, nel 1545, alla morte di Jacopo V, Elena Salviati assunse la reggenza dello Stato in nome del figlio sedicenne, Jacopo VI. Continuando Cosimo I a premere sull’Imperatore per annettersi Piombino, ingigantendo i rischi di una sua eventuale caduta in mani nemiche, turche o francesi, Carlo V cedette alle sue insistenze, nel giugno 1548; ma l’Imperatore ebbe subito un ripensamento e la decisione rimase sospesa, consentendo comunque a Cosimo di procedere alla fortificazione di Portoferrraio. Di conseguenza, il giovanissimo Jacopo VI, su istruzione della madre, si recò alla corte imperiale chiedendo giustizia per l’umiliante trattamento che stava subendo.
Il tentativo di Jacopo VI non sortì l’effetto sperato, e, in conclusione, fu riconsegnato temporaneamente lo Stato di Piombino a Cosimo, allo scopo di proteggerlo dalla conquista franco-turca, nell’agosto 1552, immediatamente dopo la morte di Elena Salviati. La quale Signora, infatti, si era opposta con la massima risolutezza a cedere la legittima sovranità del figlio, resistendo fino a che non fu costretta a scegliere onorevolmente di ritirarsi a Genova, dove morì. La condizione posta da Carlo V per la temporanea occupazione medicea di Piombino fu “a solo oggetto di custodia”, per difenderla se assalita. Per prendere possesso dello Stato fu inviato Otto da Montauto.
Semplificando molto il corso delle trattative avvenute tra il titubante Imperatore, Cosimo I, che si prestò volentieri a potenziare le fortificazioni piombinesi, ed Elena Salviati, che rifiutò qualsiasi accordo o compenso che privasse il figlio dei diritti sull’atavico dominio, lo Stato di Piombino fu concesso al Duca di Firenze, nel 1548, a condizione di doverlo restituire su richiesta dell’Imperatore medesimo. Concessione poi sospesa e successivamente ripristinata. Qualche anno dopo, a Londra, nel 1557, Jacopo VI firmò col Re Filippo II, figlio di Carlo V, l’atto formale di reintegrazione «in breve lasso di tempo» nel suo Stato, ad eccezione di Portoferraio, che rimase nella disponibilità di Cosimo I.
Questo trattato, voluto da Filippo II, tenne sicuramente conto dell’inflessibile ed apprezzabile condotta della reggente Elena Salviati, e dell’avere Jacopo VI personalmente rivendicato i propri diritti, quindi riconobbe illegittima la precedente spogliazione dei d’Aragona Appiano. Jacopo VI poté rientrare a Piombino nel 1559, dopo aver superato una malattia contratta a Londra ed altre contrarietà. Cosimo I, rassegnato ormai a dover fare a meno di Piombino, ma necessitando di un importante scalo marino come base militare e commerciale, pose l’occhio sul vecchio porto pisano e fondò, nel 1577, la città di Livorno.
Jacopo V non fu un capitano e condottiero, come lo fu suo padre ed altri della dinastia, ma ereditò dal nonno, Jacopo III, l’indole di Principe rinascimentale mecenate, protettore delle arti, per quanto lo rese possibile il suo equilibrio precario alla Signoria di Piombino e, quindi, un’esistenza abbastanza complicata di Sovrano. E’ noto, tuttavia, attraverso le “Vite” del Vasari, che egli chiamò a sé sia il pittore Antonio Bazzi, detto il Sodoma, nel 1514, il quale soggiornò a Piombino per parecchio tempo, e successivamente il Rosso Fiorentino in periodo imprecisato, fra gli anni 1518-1520; purtroppo, però, delle opere di entrambi gli artisti non è rimasto alcunché in città.
Nedo Tavera